Three figures, delicately crystallized in their movement, harmoniously intertwine with the three symbolic elements that support them. Their poses speak of mystery and gestures of surrender, of inescapable trajectories toward the time that awaits them: do they hope to return? Have they already fallen? Or are they silently preparing to take flight? They imagine places and trials, paths and weightless trajectories. The eternal attempt to achieve a final stability — an inner landscape where transitions, fleeting beauty, and the fragility of existence no longer exist.
Each of these figures seems to reflect a fragment of the human condition: eternally incomplete, always searching for an elusive balance. Their absences take shape, becoming missing parts of the body, suspended gestures, and poses that dissolve into space. Yet, within these forms, there is a subtle, almost hidden vitality: a suspended leg swaying, like a childhood memory, or a figure leaning backward, caught between an imaginary water and air.
These are bodies inhabiting a limbo—melancholic and nostalgic, yet never entirely resigned. They play with their incompleteness, transforming it into a universal language made of precarious balance, desire, and mystery.
And in the end, as we observe them closely, we realize that we are a bit like them. Survivors, imperfect, filled with scars we have left on ourselves, marks that have never faded: traces often made by our own hands.
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Tre figure, delicatamente cristallizzate nel loro movimento, si intrecciano armoniosamente con i tre elementi simbolici che le sorreggono. Le loro posizioni parlano di mistero e di gesti di abbandono, di ineluttabili traiettorie verso il tempo che le attende: sperano di tornare? Sono già cadute? O si preparano, in silenzio, a spiccare il volo? Immaginano luoghi e prove, percorsi e traiettorie senza peso. L’eterno tentativo di raggiungere una stabilità finale – un paesaggio interiore in cui non ci siano più transizioni, fugace bellezza o fragilità dell’esistenza.
Eppure, in queste forme c’è una vitalità sottile, quasi nascosta: una gamba sospesa che ondeggia, come un ricordo d’infanzia, o una figura che si abbandona all’indietro, a metà tra un’immaginaria acqua e aria.
Sono corpi che abitano un limbo, malinconici e nostalgici, ma mai del tutto arrendevoli. Giocano con la loro incompletezza e la trasformano in un linguaggio universale, fatto di equilibrio precario, di desiderio, di mistero.
E alla fine, guardandoli bene, ci accorgiamo che noi siamo un po’ come loro. Sopravvissuti, imperfetti, pieni di cicatrici che ci siamo lasciati addosso, che non sono mai andate via, segni spesso fatti con le nostre stesse mani.